Pubblichiamo volentieri un nuovo intervento del Maestro d’Ascia Cataldo Portacci, con preziose informazioni sulla pesca tradizionale tarantina:

La pesca artigianale nei mari di Taranto: u cuenz

Le esperienze di vita vissuta con l’attività di maestro d’ascia attraverso la costruzione di barche in legno durante il secolo scorso mi hanno dato l’opportunità di interagire con i pescatori artigianali della marineria tarantina.

Il recupero della memoria storica delle attività della pesca artigianale ionica è l’obiettivo della presente nota, ed in particolare delle attività di pesca con il conzo o palangaro (u cuenz). Lo scopo è quello della diffusione della cultura del mare, al rispetto dell’ambiente marino, al recupero di importanti valori della Nostra identità storica per avviare uno sviluppo compatibile nella Nostra Città.

La pesca con i palangari nella nostra marineria era adattata e resa efficace alle specie bersaglio e al tipo di fondo e di mare dove era immerso.

La pesca artigianale con il conzo è ormai una attività residuale della marineria, praticata purtroppo da pochi pescatori professionisti e da qualche dilettante. La riduzione del numero di operatori che si dedicano a tale attività è dovuta, secondo la mia opinione:

– ad un livello eccessivo e irrazionale di sfruttamento delle risorse marine costiere della pesca, soprattutto nei bassi fondali, anche attraverso l’utilizzo di attrezzature moderne e sofisticate;

– alla difficoltà crescente di lasciare in acqua degli attrezzi da pesca senza che questi siano oggetto di furti o trascinamento degli strumenti trainati.

Il conzo è costruito con una cavetto di diverso spessore e lunghezza che viene misurata attraverso l’utilizzo dell’unità di misura marinara detto “u pass”. Essa era ricavata dalla lunghezza delle braccia completamente aperte di un uomo di statura media. Lungo il cavetto vengono legati dei penzoli verticali, ai cui terminali inferiori erano annodati gli ami (ammuscidd). Il numero di ami era tra le cento e le cinquecento unità ed anche oltre per gli alti fondali. Ogni unità composta da 100, 1000, e oltre era denominata u tuene du cuenz. Sino agli anni 60 del secolo scorso la cima era costituita da filamenti di canapa ritorti, attualmente costruiti in filamenti di nylon. Per renderlo più resistente il conzo tradizionale era trattato con una sostanza colorante detto “zàppine”, ricavato dalla corteccia di alberi di pino. Esso si estraeva attraverso la bollitura in acqua delle suddette cortecce in contenitori di terracotta; se ne ricavava un liquido denso di colore marrone scuro. Questo laborioso trattamento rendeva l’attrezzo più resistente all’usura dell’acqua marina e meno visibile alla sensibilità del pesce.

Il centro per il trattamento con “u zàppine”, detta la tentaria, a Taranto era collocata a Porta Napoli, dopo il Ponte di Pietra. Gli utenti di questa bottega erano oltre ai conzaroli anche gli operatori con le reti da posta (retaruli). L’operazione dell’immersione dentro “u zàppine”, detta a tenta, era di routine, tanto che era

indispensabile prenotarsi e aspettare il proprio turno. Una volta asciugato il conzo era stirato e tirato con un passamani da sinistra a destra a brevi intervalli. Lo scopo di tale operazione era di rendere la flessibilità del conzo molto più uniforme per evitare la pericolosa formazione di nodi durante la calata in mare ed il recupero; l’avvolgimento del conzo, infatti doveva essere praticata in senso circolare in ceste di vimini. Il margine superiore di tale ceste, e per tutta la loro circonferenza, era corredata di una fascia in sughero utile per agganciare gli ami, che dovevano essere disposti con il massimo ordine per l’innesto con l’esca. Anche se uno solo degli ami non era perfettamente nel loro ordine, rischiava di compromettere l’efficacia dell’attrezzo che si basa soprattutto sull’ordine certosino delle sue semplici ma numerose componenti. I penzoli, che erano applicati alla distanza reciproca di 1 m circa, erano dette palmaredde. Questi erano costruiti anche con i filamenti delle code dei cavalli.

La pesca si praticava in Mar Piccolo ma soprattutto in Mar Grande data la caratteristica “lineare” dell’attrezzo che aveva, perciò, la necessità di più ampi tratti di mare a disposizione. Anche per la qualità del pescato, ovvero per il numero di specie, il Mar Grande era prediletto per la pesca con il conzo.

Descriveremo le tecniche al conzo più redditizie e significative per sottolineare anche le grandi risorse dei nostri mari.

La pesca alle anguille nel Mar Piccole si praticava durante i mesi miti e freddi dell’anno. Le zone di mare più pescose erano quelle collocate ai margini degli impianti fissi di mitilicoltura e nelle adiacenze dei citri (polle risorgive di acqua salmastra in mare). Le anguille erano catturate anche con la lenza, le nasse e i panari (ceste di vimini intrecciate di forma circolare).

La tecnica praticata nei quadri delle cozze possiamo considerarla caratteristica della marineria tarantina ed era denominata cuenz appis all pale(conzo appeso ai pali). In particolare essa era realizzata tra le ventie i pali e i pergolari di mitili. I conzaruli era autorizzati dai concessionari degli impianti di mitilicoltura a praticare la pesca alle anguille nei loro quadri. Le persone autorizzate erano dei pescatori affidabili al fine di non recare danno agli impianti molluschicoli. Il conzo era, in tale tecnica, civato con le cozze agli ami. Esso era collocato verticalmente e sollevato dai fondali per sfruttare la risalita notturna delle anguille verso la superficie e agevolare l’abbocco all’amo. Questa tecnica di pesca richiedeva, perciò, esperienza, capacità e attenzione. Dall’inizio degli anni ‘80 del secolo scorso le anguille tarantine sono completamente scomparse per lo sconvolgimento delle caratteristiche oceanografiche dei mari di Taranto. Le anguille presenti attualmente sul mercato provengono soprattutto da Lesina e da i diversi paesi del Mediterraneo. Le anguille tarantine erano rinomate in tutta Italia per la particolare consistenza delle carni e il sapore prelibato.

Quella “all spar mazz” era un’altra pesca redditizia che si praticava nel Mar Piccolo con il conzo. Le specie che potevano essere catturate con questo attrezzo erano: spari, piccole orate (“bandicedde”), ecc. Le esche con cui erano civati gli ami erano costituiti anche dai lombrichi. Tale esca era reperita nei terreni umidi della provincia dagli stessi pescatori che raggiungevano le località prescelte con biciclette. Il terreno veniva esplorato attraverso delle zappe e i lombrichi erano conservati vivi sino alla pesca nel

terriccio bagnato. In Via Garibaldi ed in alcuni vicoli e piazzette della Città Vecchia si raggruppavano in pittoreschi e sin anche spettacolari squadre di pescatori del conzo, formate da gruppi di tre quattro persone. I pescatori si riunivano per civare gli ami con i lombrichi che erano raccolti in un vecchio cappello o una cassetta. I vermi erano raccolti singolarmente con grande abilità e solerzia.

Il Mar Grande come già accennato, date le sue caratteristiche, era un bacino più adatto alla pesca con il conzo. La pesca ai gronchi era praticata proprio con il conzo nei fondali fangosi del Mar Grande nelle ore notturne. Gli ami, in tal caso, venivano civati con le sarde. Inoltre, uno dei siti di maggior pregio per praticare questo tipo di pesca era posizionato nell’area sud orientale del Mar Grande presso Capo San Vito, su fondali rocciosi dette “chianche”. Presso le “chianche” era possibile pescare: cocciche, saraghi, ombrine; in tal caso gli ami erano civati con merluzzetti, piccoli pesci o con vermi detto “bivo” o piccoli tagli di seppie.

Un sistema particolare utilizzato per la cattura sulle “chianche” di specie particolarmente pregiate era il “conzo a vela”. In tal caso il cavetto era sostenuto parallelo alla superficie dell’acqua attraverso una serie di galleggianti (detti sugheri). I penzoli, sistemati alla reciproca distanza di circa 2 m, sostenevano gli ami in modo da operare nell’interfaccia fondo mare sollevati da piccoli sugheri allo scopo di attirare specie, anche di grossa taglia, come dentici, cernie e saraghi, senza però impigliarsi tra le rocce. L’attrezzo era segnalato da un galleggiante di sughero che ne segnalava l’inizio; tale punto era fondamentale nel recupero dell’ingegno.

Le barche tradizionali per la pesca del conzo erano costruite con sistemi di propulsione che in origine prevedevano la vela ed i remi. Tali barche, nel caso dovessero essere adibite a tale tipo di pesca nel Mar Piccolo di Taranto (dette “conzitiedde”) di norma non superavano i 5 m di lunghezza. Le barche, invece, che dovevano praticare tale tipo di pesca in Mar Grande superavano i 5 m, sino ad arrivare sino ai 12-15 per la pesca ai merluzzi in alto mare (pesca ai “mazzune”). Questo tipo di pesca è stata già descritta in un altro capitolo del Diario.

Questo tipo di pesca è la testimonianza di come la gente di mare di Taranto aveva escogitato sistemi semplici ed efficaci per l’utilizzo delle risorse del mare. Modalità che hanno consentito il sostentamento della Città di Taranto per millenni e che possono costituire la base per una gestione sostenibile delle risorse marine per il nuovo millennio.

Taranto, 9 aprile 2012

Cataldo PORTACCI 

 

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